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SIMON BECKETT
SIMON BECKETT
LA CHIMICA DELLA MORTE
(The Chemistry Of Death, 2006)
A Hilary
1
Il corpo umano inizia a decomporsi quattro minuti dopo la morte. Quello
che è stato l'involucro della vita subisce adesso la metamorfosi finale. Co-
mincia a digerire se stesso. Le cellule si decompongono a partire dall'inter-
no. I tessuti si trasformano in liquidi, quindi in gas. Non più animato, il
corpo diventa un banchetto immobile per altri organismi. Prima i batteri,
poi gli insetti. Mosche. Le uova vengono deposte e, poco dopo si schiudo-
no. Le larve si alimentano di quel brodo ricco e nutriente, avanti di emigra-
re. Abbandonano il corpo in buon ordine, incolonnandosi in un corteo di-
sciplinato, invariabilmente diretto a sud. A volte a sud-est o a sud-ovest -
mai a nord, comunque. Nessuno sa per quale motivo.
A questo punto, le proteine dei muscoli si sono ormai disgregate, produ-
cendo una potente miscela chimica. Letale per la vegetazione, quel compo-
sto uccide l'erba man mano che le larve strisciano su di essa, come un mor-
tifero cordone ombelicale che si allunga nella direzione da cui sono venu-
te. Nelle condizioni ideali - vale a dire, calde e secche, e senza pioggia - si
può estendere per alcuni metri, originando una processione danzante di
grassi vermi gialli. È uno spettacolo davvero inusuale e, per le persone cu-
riose, cosa c'è di più naturale e affascinante che seguire il fenomeno sino
alla sua origine? E fu proprio così che i fratelli Yates trovarono quel che
rimaneva di Sally Palmer.
Neil e Sam si imbatterono nella colonna di vermi nei pressi di Farnham
Wood, nel punto in cui il bosco confina con la palude. Era la seconda set-
timana di luglio, e sembrava che quell'estate anomala durasse già da un'e-
ternità. L'ininterrotta canicola aveva prosciugato i colori degli alberi e si
era accanita sul suolo fino a renderlo compatto come un osso. I ragazzi e-
rano diretti a Willow Hole, uno stagno circondato da un canneto che fun-
geva da piscina per gli abitanti della zona. Lì si sarebbero incontrati con
alcuni amici, e avrebbero passato il pomeriggio domenicale tuffandosi nel-
la tiepida acqua verde da un albero che si protendeva sulla pozza. Almeno
così credevano.
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Mi sembrava di vederli annoiati e indolenti, intontiti dal caldo, insoffe-
renti. Neil, che con i suoi undici anni - tre più del fratello - cammina da-
vanti a Sam, quasi volesse dimostrargli la propria impazienza. Impugna un
bastone, con il quale colpisce i fusti e i rami cui passa accanto. Sam arran-
ca dietro di lui e, di tanto in tanto, tira su con il naso. Non per un raffred-
dore estivo, bensì per la febbre da fieno che gli arrossa anche gli occhi. Un
blando antistaminico gli farebbe bene - ma ancora non lo sa. D'estate, si ri-
trova sempre alle prese con il naso che cola. È l'ombra del fratello maggio-
re, e cammina a testa bassa, ecco perché è lui, e non Neil, a notare la pro-
cessione di vermi.
Si ferma a esaminarla prima di gridare al fratello di tornare indietro. Neil
si dimostra restio ma, a quanto pare, Sam ha davvero scoperto qualcosa.
Cerca di ostentare indifferenza, benché l'ondeggiante processione di larve
stuzzichi tremendamente la sua curiosità. Entrambi si chinano sui vermi,
scostandosi i capelli scuri dai volti somiglianti e arricciando il naso per l'o-
dore d'ammoniaca. E sebbene in seguito nessuno dei due sarebbe riuscito a
ricordare a chi fosse venuta l'idea di scoprire da dove arrivasse quel corteo,
secondo me la decisione fu di Neil. Dopo aver mancato di notare i vermi,
doveva essere ansioso di riaffermare la propria autorità. E così è il fratello
più anziano a fare il primo passo, dirigendosi verso i ciuffi giallognoli
d'erba palustre da cui provengono le larve, lasciando a Sam soltanto la
scelta di seguirlo.
Avvicinandosi percepirono il fetore? Probabile. Doveva essere abba-
stanza forte da penetrare persino nelle narici occluse di Sam. E verosimil-
mente capirono anche di cosa si trattava: non erano ragazzini di città e a-
vevano dimestichezza con il ciclo della vita e della morte. Pure le mosche -
il cui sonnacchioso ronzio sembrava riempire la calura - dovettero allertar-
li. Ma il corpo che scoprirono non era - come si aspettavano - quello di una
pecora o di un daino, oppure di un cane. Nuda, e tuttavia irriconoscibile
nella luce del sole, Sally Palmer brulicava di un'attività frenetica, di un'in-
festazione formicolante che ribolliva sotto la pelle e si riversava fuori dalla
bocca e dal naso, oltre che da altri orifizi del corpo, assai meno familiari ai
due fratelli. I vermi che traboccavano dal cadavere si riunivano sul terreno,
prima di strisciare via lungo quella scia che adesso si allungava alle spalle
dei fratelli Yates.
Non credo che abbia molta importanza stabilire chi sia scattato per pri-
mo, tuttavia penso che sia stato Neil. Come al solito, Sam deve aver segui-
to l'esempio del fratello maggiore, cercando di mantenere il ritmo di una
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corsa che li condusse prima a casa, e poi al posto di polizia. E infine da
me.
Oltre a un blando sedativo, diedi a Sam un antistaminico per alleviare i
sintomi del raffreddore da fieno. A quel punto, però non era l'unico ad ave-
re gli occhi rossi. Anche Neil appariva profondamente scosso dalla scoper-
ta del cadavere di Sally Palmer, benché mostrasse di aver già cominciato a
recuperare la giovanile padronanza di sé. Quindi fu lui, e non Sam, a rac-
contarmi l'accaduto, iniziando a stemperare la crudezza del ricordo in una
forma più tollerabile, in una storia da narrare e rinarrare. E, più tardi,
quando i tragici eventi di quell'estate eccezionalmente calda ebbero seguito
il proprio corso, Neil avrebbe continuato a raccontare i particolari della vi-
cenda per anni, giacché la sua scoperta poteva essere considerata l'inizio di
tutto.
In realtà, non era così. Semplicemente, fino ad allora, non ci eravamo
mai resi conto di ciò che si nascondeva in mezzo a noi.
2
Ero arrivato a Manham tre anni prima, nel tardo pomeriggio di un marzo
piovoso. Alla stazione ferroviaria - poco più che una minuscola banchina
piazzata in mezzo al nulla - mi ero trovato di fronte a un panorama sferzato
dalla pioggia, che sembrava privo sia di vita umana sia di contorni definiti.
Con la valigia in mano, rimasi a osservare il paesaggio circostante, senza
quasi accorgermi della pioggia che mi sgocciolava lungo la parte posterio-
re del colletto. Tutt'intorno si stendevano piatte lande acquitrinose e paludi,
una topografia piana che si allungava fino all'orizzonte, interrotta soltanto
da alcune macchie d'alberi ancora spogli.
Era la prima volta che arrivavo nei Broads, il mio primo assaggio del
Norfolk. Mi risultò straordinariamente estraneo. Contemplai quegli ampi
spazi, inspirai l'aria umida e fredda, e sentii che, dentro di me, in modo
quasi impercettibile, qualcosa cominciava a placarsi. Per quanto inospitale,
quel posto non era Londra - e ciò mi bastava.
Non c'era nessuno ad attendermi. Non avevo preso accordi perché mi
accogliessero alla stazione. I miei piani non arrivavano così lontano. Ave-
vo venduto l'auto, insieme a tutto il resto, senza preoccuparmi di come a-
vrei potuto raggiungere il paese. Non ero ancora molto lucido, a quel tem-
po. E, anche se ci avessi pensato, con la saccenteria del cittadino, avrei da-
to per scontato di trovare un taxi, un negozio... insomma, qualcosa. Ma
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non c'era alcun posteggio di auto pubbliche, e neppure una cabina telefoni-
ca. Per un attimo, mi pentii di aver regalato il cellulare; poi sollevai la va-
ligia e mi diressi verso la strada. Arrivato lì, mi trovai davanti all'alternati-
va se andare a destra o a sinistra. Senza alcuna esitazione né un fondato
motivo, scelsi la sinistra. Dopo qualche centinaio di metri, raggiunsi un in-
crocio con uno sbiadito cartello stradale in legno. Era inclinato, e sembrava
indicare un punto sotterraneo, nelle profondità di quel suolo umido. Co-
munque, mi confermò che avanzavo nella direzione giusta.
Quando arrivai in paese, l'ultima luce del giorno stava svanendo. Mentre
camminavo, mi superarono un paio d'auto, ma senza fermarsi. Oltre a que-
ste rapide presenze, identificai i primi segni di vita nelle poche fattorie che
sorgevano lontano dalla strada, e ben distanziate l'una dall'altra. Poi, nella
semioscurità, davanti a me vidi il campanile di una chiesa: per metà, mi
sembrò sepolto in un campo. Adesso c'era un marciapiede, stretto e scivo-
loso per la pioggia, ma pur sempre migliore del ciglio erboso prospiciente
le siepi di cespugli su cui avevo camminato da quando mi ero allontanato
dalla stazione. Al termine di una curva sulla strada scorsi il paese, pratica-
mente invisibile fino al momento in cui non te lo ritrovavi di fronte quasi
per caso.
Non era esattamente una visione da cartolina: troppo popoloso, troppo
disordinato per accordarsi all'idea tipica del villaggio rurale inglese. La pe-
riferia era formata da una schiera di case anteguerra, che ben presto cedet-
tero il passo a una serie di cottage in pietra, i cui muri apparivano ricoperti
di scaglie di selce. Le costruzioni diventavano sempre più antiche man
mano che mi avvicinavo al centro del paese: ogni passo sembrava ripor-
tarmi indietro nel tempo. Lucide per la pioviggine, si addossavano l'una al-
l'altra, mentre le finestre prive di vita riflettevano la mia immagine con va-
ga diffidenza.
Poi i negozi chiusi cominciarono a fiancheggiare la strada; dietro di essi,
altre case sembravano dileguarsi nel crepuscolo acquoso. Superai una
scuola e un pub e raggiunsi il giardino al centro del villaggio. Brillava di
giunchiglie che oscillavano nella pioggia: le gialle corolle sorprenden-
temente risaltavano nel nero di seppia che le circondava. Un vecchio e gi-
gantesco ippocastano torreggiava sul prato con i suoi rami scuri spogli. Ol-
tre l'enorme albero, circondata dalle lapidi sbilenche e coperte di muschio
del cimitero, si ergeva la chiesa normanna, il cui campanile avevo scorto
dalla strada. Al pari di quelle dei cottage più antichi, le sue mura erano ri-
coperte di selce; pietre tenaci, rosse schegge - grandi come un pugno, che
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sfidavano gli elementi. Tuttavia la malta circostante aveva subito le ingiu-
rie del tempo, e la porta e le finestre della basilica si erano leggermente de-
formate man mano che il terreno si era smosso nel corso dei secoli.
Mi fermai. Adesso la strada cedeva il passo ad altre case. Risultava evi-
dente che a Manham non ci fosse molto da vedere. Alcune finestre appari-
vano illuminate, ma, oltre a ciò, non c'era alcun segno di vita. Rimasi im-
mobile sotto la pioggia, incerto sulla direzione da prendere. Poi sentii un
rumore e vidi due giardinieri al lavoro, nel cimitero. Indifferenti alla piog-
gia e alla luce morente, rastrellavano e strappavano l'erba intorno alle lapi-
di. Quando mi avvicinai, continuarono a lavorare senza alzare la testa.
«Mi sapreste indicare l'ambulatorio medico?» chiesi, con il volto rigato
dalla pioggia.
Per un attimo, smisero le loro occupazioni e mi squadrarono: si somi-
gliavano tremendamente, nonostante il divario d'età - di certo, erano nonno
e nipote. I loro volti avevano la stessa espressione placida e priva di curio-
sità, i medesimi occhi calmi, dell'azzurro di un fiordaliso. Con un cenno, il
più anziano indicò il viottolo fiancheggiato dagli alberi sul lato opposto del
giardino.
«Dritto di là.»
Con le vocali impastate che suonavano così estranee alle mie orecchie
metropolitane, il suo accento mi fornì un'ulteriore conferma del fatto che
non ero più a Londra. Li ringraziai, ma entrambi si erano già rimessi al la-
voro. Mi incamminai lungo il viottolo: il rumore della pioggia veniva am-
plificato dai rami sopra il mio capo. Dopo alcuni minuti, giunsi a un gran-
de cancello che sbarrava l'accesso a uno stretto viale. A uno dei pilastri era
fissata una piastra con la scritta «Villa Bank». Sotto di essa campeggiava
la targa d'ottone con le parole: «Dottor H. Maitland.» Fiancheggiato dai
tassi, il viale d'accesso risaliva dolcemente attraverso giardini ben curati,
prima di digradare nel cortile di un'imponente casa georgiana. Mi pulii le
scarpe sul consunto raschietto di ghisa posto a un lato dell'ingresso, solle-
vai il pesante batacchio e lo lasciai ricadere sull'uscio. Stavo per bussare di
nuovo quando la porta venne aperta.
Una paffuta donna di mezz'età, con i capelli di un grigio ferro uniforme,
mi fissò.
«Sì?»
«Desidero conferire con il dottor Maitland.»
Lei si accigliò. «L'ambulatorio è chiuso. E temo che, a quest'ora, il dot-
tore non faccia visite a domicilio.»
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