CELI5 (Livello C2) - Sessione Estiva 2007 + chiave.pdf

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Sessione Estiva 2007
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Prova di Comprensione della Lettura CELI 5 – giugno 2007
PARTE A PROVA DI COMPRENSIONE DELLA LETTURA
A.1 Leggere i due testi. Indicare nel Foglio delle Risposte vicino ad ogni numero da 1 a 10 la
lettera A, B, C o D corrispondente alla risposta scelta.
A.1
1° Testo
Esempio di risposta
:
0
A
B
C
D
1° testo
Così imparai a memoria La stanza del vescovo
Andrea Vitali, un giovane autore, racconta il suo primo incontro con il celebre romanzo
Sono il primo di sei figli, ma, benché il maggiore, fui l’ultimo a partire per la naia tra i quattro maschi del sestetto.
Vestii la divisa a 25 anni e salii sul treno per il Car (Centro addestramento reclute) leggero e appesantito insieme.
Leggero perché, dalle informazioni raccolte in famiglia e presso chi aveva già ottemperato all’obbligo di leva, il
tempo, l’anno che mi si apriva davanti, sarebbe stato lungo, vuoto e, a dir di molti, anche inutile: un tempo
insomma che andava farcito, motivato, per non spezzare il filo tra il prima e il dopo. Libri, non ebbi dubbi sugli
ingredienti della farcitura. Libri, sani compagni, amici silenziosi: loro avrebbero reso meno indigesto quel
polpettone che mi aspettava.
Eccola, quindi, la ragione per la quale partii anche appesantito: perché nella borsa con la quale lasciai casa e
paese ne forzai parecchi. Quali fossero, adesso non saprei dirlo, francamente. Ma fra i tanti, tre li ricordo
lucidamente e assieme ai titoli ricordo anche il motivo che me li fece preferire rispetto ad altri.
Uno era Plutarco, le Vite parallele , il secondo un’opera omnia del poeta francese Guillaume Apollinaire, l’ultimo
del terzetto fu La stanza del vescovo di Piero Chiara. Perché lo scelsi? Perché, innanzitutto, lo sceglierei anche
oggi: il che vuol dire che, oggi come allora, sento la nostalgia del lago ogniqualvolta me ne allontano, anche per
brevi periodi. Ma allora, a 25 anni, fu la prima. E avevo la certezza matematica che la mancanza del noto
panorama quotidiano sotto gli occhi mi avrebbe provocato qualche dissesto. Certo non potevo immaginare che
ciò potesse capitare tanto in fretta: non appena il treno che mi portava al Car lasciò la mia stazione e si infilò in
galleria, orbandomi di lago e montagna, ci restai male, capii che per un anno, tranne brevi, nervosi intervalli, non
avrei avuto la consolazione di venti, di cieli d’acquarello, di odori forti e ineffabili dove l’alga si mischia al
muschio, al pesce e, ahimè, talvolta anche alla fogna.
Non ero che a Varenna, 4 chilometri dal punto di partenza per la precisione, che la mia mano pescava già nella
borsa per afferrare le avventure di Temistocle Mario Orimbelli e averne un tocco di consolazione. Fu, quella, la
prima di non so quante riletture di La stanza del vescovo portate avanti a scopo terapeutico. Certo, di tanto in
tanto, buttavo un occhio anche sugli altri libri, ma mi rimandavano a mondi troppo lontani, mi raccontavano una
geografia troppo difficile da ricostruire mentalmente, mentre io avevo bisogno di aria di lago, quella che usciva
magicamente dalle pagine del romanzo di Chiara: e pazienza se il lago non era proprio il mio.
Quando finalmente, ottemperato l’obbligo di leva, potei fare ritorno a casa, passai qualche giornata chiuso in un
silenzio che i miei guardarono con sospetto: tra di me confrontavo mentalmente le impressioni evocate dalla
lettura di quel romanzo e quelle che adesso l’occhio, la vista, l’udito e l’olfatto mi offrivano in presa diretta. Fu la
sensazione di esattezza, di assoluta sovrapponibilità tra i sentimenti evocati dalla storia e quelli che la realtà
determinava, a convincermi di aver avuto per compagno un autentico capolavoro. Che non solo aveva agito su di
me con le sue virtù terapeutiche, ma anche stava cominciando a dispiegare tutto il suo potenziale didattico:
insomma, la mia scuola di scrittura creativa l’avevo lì sotto gli occhi e nessuno avrebbe mai potuto impedirmi di
frequentarla. Così, chiaritomi il pensiero, ripresi il gusto della parola, con relativa gioia dei miei, i quali stavano
probabilmente cominciando a pensare che l’anno di militare mi avesse creato qualche disorientamento. Non a
caso ho scritto di gioia relativa: perché, per giorni e giorni, se aprivo bocca era solo per citare lunghi brani di La
stanza del vescovo , esaltandomi nei dialoghi o riferendo puntigliosamente circa gli oggetti contenuti nel baule
dell’Orimbelli quando, verso la fine della storia e prima di suicidarsi, lo stesso ne fa uno spoglio che suona come
1
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campana a morto o testamento. Dura tuttora in me il sospetto che la famiglia tenne una specie di consiglio, dal
quale fui naturalmente escluso, allo scopo di decidere come affrontare la questione, il mio caso. Che venne
messo sul tavolo una sera, dopo cena, non appena terminai di raccontare dell’Orimbelli e delle sue misteriose
triangolazioni.
Che intenzioni avevo, fino a quando avrei continuato, cosa mi batteva in testa?, mi venne chiesto abbastanza
bruscamente. Risposi la prima, l’unica cosa che potevo, quella che da tempo dava energie alle mie speranze per
il futuro: volevo fare lo scrittore. Sì, confermai, proprio. Volevo raccontare storie come quella che mi aveva fatto
compagnia per un intiero anno, volevo che un lettore abboccasse a una cosa scritta da me, come avevo fatto io,
pesciolino fuori dal suo ambiente naturale, con La stanza del vescovo .
(Andrea Vitali, “Panorama”, 28 dicembre 2006)
1 Andrea, nei libri che portò con sé al momento della partenza, cercava
A
una fonte di ispirazione per ovviare alla vacuità della naia
B
un antidoto alla scarsità di rapporti umani che prevedeva di avere
C
un elemento unificatore fra diverse fasi della sua vita
una “medicina” contro la depressione da servizio militare
D
2 Con il libro di Chiara, Andrea intendeva
A
colmare la distanza geografica che lo separava dal luogo natale
ritrovare, fra le sue pagine, l’ambiente lacustre a lui tanto caro
B
C
compensare le sue letture altrimenti troppo impegnative e concettuali
far rivivere nella sua memoria i ricordi perduti del lago e della montagna
D
3 Andrea, al ritorno dal servizio militare,
A
evitò di comunicare ai familiari gli esiti della sua ricerca interiore
B
intuì di aver appreso più dalla lettura del libro che dalla vita militare
C
capì di aver trovato, in quel romanzo, un caposaldo per la sua formazione
D
constatò quanto l’intreccio del romanzo fosse verosimile e credibile
4 I suoi familiari mostrarono verso di lui un atteggiamento di
A
paziente attesa
B
malcelata ostilità
C
eccessiva apprensione
D
seria preoccupazione
5 Per Andrea, la risposta “Voglio fare lo scrittore” costituì
A
la prima, istintiva frase che gli venne subito in mente
B
il frutto di un lungo processo di maturazione personale
C
la liberazione da un affanno che lo tormentava da tempo
il tentativo di conquistare un vasto e fedelissimo pubblico
D
2
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2° testo
Bicentenario della nascita di un eroe
Non è un caso che più di 5500 comuni italiani abbiano strade e piazze dedicate a Giuseppe Garibaldi
(il personaggio più citato della nostra toponomastica): il suo mito è arrivato a fare il giro del mondo,
dalle Americhe all’Estremo Oriente. Romantico, magnetico, travolgente.
India 1857. Scoppia una rivolta contro gli inglesi e si sparge la voce che il Leone della Libertà sarebbe
in arrivo per aiutare gli insorti: la notizia ha un tale impatto sulla popolazione in armi da spaventare
anche le truppe britanniche. Guerra di Secessione americana: all’Eroe dei due Mondi viene addirittura
offerto di comandare una divisione dell’Esercito Nordista. Londra 1864, Garibaldi è ospite del
sindacato dei lavoratori inglesi: per ascoltare il suo “comizio” accorre a Hyde Park una folla di un
milione di persone.
Ed ecco che nel 2007, bicentenario della sua nascita, il tema del suo mito riaffiora. Rispolverato,
svecchiato, discusso, riletto, rimaneggiato. Le celebrazioni del Comitato nazionale sono iniziate e
continueranno tutto l’anno con mostre, convegni, film, perfino eventi sportivi.
Ma basta essere brillante comandante militare - audace, fortunato, avventuroso, in lotta per la
giustizia sociale e restio agli onori - per diventare l’eroe per antonomasia, il campione
dell’indipendenza di tutti i popoli? «La portata universale del mito Garibaldi non si spiega del tutto
senza il suo modernissimo intuito per la comunicazione» dice Romano Ugolini, vicepresidente
dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano. «Garibaldi fu il primo nel diciannovesimo secolo a
capire che, per raggiungere le masse, bisognava superare i metodi di propaganda tradizionali - libri e
giornali - in favore di strumenti più semplici, accessibili anche al pubblico analfabeta. Ed ecco che
l’eroe incoraggia le rappresentazioni delle sue gesta, partecipa a manifestazioni religiose popolari,
adotta la camicia rossa per colpire… E soprattutto si circonda di fotografi che lo ritraggono in
continuazione. Così facendo è l’unico, due secoli fa, che “buca” l’immaginario contadino:
importantissimo in un’epoca in cui sono proprio i contadini a fornire agli eserciti viveri e informazioni
sul nemico. E tutt’oggi, in certe zone rurali, sopravvivono le sue effigi accanto a quelle di Cristo:
entrambi con la barba bionda, i capelli lunghi, illuminati dalle candele».
Abilissimo creatore del proprio mito, Garibaldi intuì subito l’enorme portata propagandistica della
neonata fotografia, che gli consentiva di moltiplicare la propria immagine e diffonderla a basso costo,
magari autografata e con dedica, per aumentare la sua popolarità. E si sottopose a migliaia di scatti:
ovunque si fermasse nei viaggi, anche se per un solo giorno, anche tra una battaglia e l’altra. «Fu
l’uomo più fotografato nell’Italia di allora» dice Michael Jacob, storico della fotografia e scrittore, che
ha una delle più ricche collezioni private di foto di Garibaldi, garibaldini e garibaldinerie. «Diffuse
come santini, le foto spesso precedono l’arrivo dell’Eroe dei due Mondi, come un annuncio precede il
Messia. Così i futuri italiani conoscono il loro “salvatore” molto prima di essere salvati» continua
Jacob. «Mentre gli altri protagonisti dell’Unità d’Italia - Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele – sono
assai più restii a posare per l’obiettivo e risultano più rigidi e formali quando si concedono. Quasi
avessero paura dell’impietoso realismo fotografico. Come i grandi di tutti i tempi, che hanno sempre
preferito farsi ritrarre da pittori compiacenti che minimizzavano i loro difetti. Garibaldi, invece, non è
affatto intimidito dall’immediatezza dello scatto. Anzi: si fa riprendere malvestito, con capelli e barba
incolti. Consapevole che la scapigliatura rafforza il mito del ribelle romantico».
Straordinario comunicatore. «In una lettera» racconta il professor Ugolini «Garibaldi scrive: “So che
spesso si dicono di me cose erronee. Ma non le correggo mai: intervengo solo se mi offendono”. In
altre parole: non mi importa come si parla di me, purchè di me si parli. Tant’è che Garibaldi non
smentisce mai Alexandre Dumas che, inviato al seguito dei Mille, scrive anche cronache non vere:
quelle fantasie colpiscono il pubblico e gli fanno da cassa di risonanza. E quando in seguito, a
Caprera, è tempestato di lettere dei fan che chiedono un ricordo, lui infaticabile invia a tutti un sasso
dell’isola o una ciocca di capelli (non suoi, altrimenti sarebbe rimasto calvo)».
Il più antico scatto di Garibaldi è un dagherrotipo (l’immagine su lastra argentata degli esordi della
fotografia) fatto a New York nel 1851: la tecnica era stata inventata solo dodici anni prima. I suoi
ritratti, però, cominciano a spuntare con regolarità solo a partire dal 1859 quando, alla guida dei
Bicentenario della nascita di un eroe
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Cacciatori delle Alpi, deve sedurre la popolazione per arruolare volontari. E invadono il mercato l’anno
dopo, durante l’impresa dei Mille. Per riproporsi, sempre diversi, nel corso degli anni. Ci sono ritratti
di lui anziano, perfino morto: il suo funerale è seguito da schiere di fotografi.
Ironia della comunicazione. La stessa polizia borbonica riproduce a sue spese migliaia di copie di una
sua foto e la fa circolare offrendo una taglia a chi cattura il “bandito”. Così anche i suoi nemici
contribuiscono non poco alla diffusione della sua immagine.
(Antonella Barina, “Il Venerdì di Repubblica”, 2 febbraio 2007)
6 Da quanto si evince dal testo, la popolarità di Garibaldi scaturirebbe
A
dall’unicità delle sue doti personali
B
dalle sue travolgenti doti oratorie
C
dall’eccezionalità del personaggio mediatico
D
dai suoi decisivi interventi in tanti conflitti
7 Garibaldi, per aumentare la sua fama,
A
sfruttò la religiosità popolare
B
valorizzò ad arte la sua immagine
C
si rivolse alle persone poco scolarizzate
si dedicò alla modernizzazione della stampa
D
8 Nel posare per i fotografi, Garibaldi
A
non temeva di mostrare le sue peculiarità
B
non voleva sembrare un personaggio artefatto
C
cercava di eguagliare la fama di altri personaggi
desiderava sensibilizzare politicamente le masse
D
9 Garibaldi aveva, con i media , un rapporto
A
aperto, ma conflittuale
B
benevolo e condiscendente
C
di complicità, per sviare il pubblico
di collaborazione, per dialogare col pubblico
D
10 Per Garibaldi, le fotografie
A
diventarono un’arma per vincere le sue battaglie
B
giocarono a suo sfavore, agevolandone la cattura
C
furono la testimonianza del suo amore per le innovazioni
furono la riprova che l’immagine può creare consenso
D
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