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UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA
di TIZIANO
TERZANI
LONGANESI & C.
MILANO
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Longanesi & C. © 2004 • 20122 Milano, corso Italia, 13
II nostro indirizzo internet è: www.longanesi.it ISBN 88-304-2142-1
UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA
Alla memoria di Mario Spagnai
mio editore elettivo
con cui per primo parlai di questo viaggio
PARTENZA
UN CAMMINO SENZA SCORCIATOIE
Si SA, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi.
Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Così, quando capitò a me,
ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a
qualcun altro. « Signor Terzani, lei ha il cancro », disse il medico, ma era
come non parlasse a me, tanto è vero - e me ne accorsi subito, meravigliandomi -
che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi
riguardasse.
Forse quella prima indifferenza fu solo un'istintiva forma di difesa, un modo
per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a
guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio,
questo, che si può imparare.
Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere. Pensai a quanti
altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e
trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C'ero
arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé
insignificante, ma nell'insieme decisivi, come tante cose nella vita: una
persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all'Istituto delle
Malattie Tropicali a Parigi, altri esami per scoprire la causa di un'in-
spiegabile anemia, finché un accorto medico italiano, non accontentandosi delle
spiegazioni più ovvie, s'era messo con un suo strano strumento - un penetrante
serpentaccio di gomma dall'occhio luminoso - a guardare nei recessi più
reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente
riconosciuto quel che conosceva.
Gli ero grato per essere stato bravo e chiaro. Così potevo, con calma, e ora
con una vera ragione, fare i miei conti, ristabilire le mie priorità e prendere
le decisioni necessarie. Stavo per compiere cinquantanove anni e mi venne da
voltarmi indietro, come si fa per guardare con soddisfazione la salita che si è
fatta, una volta arrivati in cima a una montagna. La mia vita fino ad allora?
Meravigliosa! Un'avventura dopo l'altra, un grande amore, nessun
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rimpianto, niente di importantissimo ancora da fare. Se da ragazzo, partendo per
questo viaggio, mi fossi dato per meta quella di per sé già agognata da tanti di
«piantare un albero, mettere al mondo un figlio e scrivere un verso», più o meno
c'ero arrivato. E quasi senza accorgermene, senza sforzo e, strada facendo,
divertendomi.
Quella notte in ospedale, nel silenzio rotto solo dal frusciare delle auto
sull'asfalto bagnato della strada e da quello delle suore sul linoleum del
corridoio, mi venne in mente un'immagine di me che da allora mi accompagna. Mi
parve che tutta la mia vita fosse stata come su una giostra: fin dall'inizio
m'era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio
piacimento senza che mai - me ne resi conto allora per la prima volta -, mai
qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto. No. Davvero il
biglietto non ce l'avevo. Tutta la vita avevo viaggiato a ufo! Bene: ora passava
il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, magari riuscivo anche a
fare... un altro giro di giostra.
Il giorno dopo cominciò come un giorno qualunque. Niente attorno a me era
cambiato e niente rifletteva la gran tempesta di pensieri che mi turbinava in
testa. A Porretta Terme, dove dovetti cambiar treno per raggiungere Pracchia e
da lì Orsigna, mi ricordai persine di andare a ritirare la biancheria che
qualche giorno prima avevo lasciato a lavare. Arrivato a casa, proposi ad Angela
che mi aspettava di andare assieme a fare una passeggiata nel bosco. Dopo quasi
quarantanni di vita in comune fu semplice parlarsi e tacere. Le promisi di
impegnarmi a farcela, e quello, credo, fu l'unico momento in cui mi commossi.
Si trattava di decidere presto cosa fare. Il primo istinto fu quello di un
animale ferito: ritirarsi in una tana. D'un tratto mi parve di avere poche forze
e di doverle concentrare al massimo. Decisi di non dire niente a nessuno, tranne
ai figli e a quegli amici che avrebbero trovato incomprensibile il mio
scomparire dal mondo. Volevo mettere a fuoco la mia mente, non essere distratto
da nulla e da nessuno.
Innanzitutto dovevo scegliere dove curarmi e in particolare come curarmi.
Chemioterapia, radioterapia, chirurgia con tutte le loro - si dice - devastanti
conseguenze non sono più le sole alternative. Anzi, oggi che tutto è messo in
discussione, che tutto quel che è ufficiale è visto con sospetto, che ogni
autorità ha perso prestigio e che ognuno si sente in diritto, senza alcun
ritegno,
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di giudicare tutto e tutti, è diventato sempre più di moda dir male della
medicina classica e un gran bene di quella « alternativa ».
I nomi, se non altro, suonano più attraenti: ayurveda, pranoterapia,
agopuntura, yoga, omeopatia, erbe cinesi, reiki, e - perché no? - i guaritori,
filippini o no. C'è sempre un sentito dire, una persona di cui qualcuno
racconta, una storia che sembra essere fatta apposta per essere creduta e dare
speranza in una di queste sempre più numerose « cure ». Non le presi sul serio
neanche per un attimo.
Eppure, molte di queste pratiche vengono dall'Asia, dove ho vissuto per
trent'anni; alcune hanno le loro radici in India, dove ora ho casa! Io stesso in
passato non ho avuto problemi a ricorrerci: in Cina misi mio figlio Folco,
allora undicenne, nelle mani di un agopunturista che gli curò l'asma, e solo un
anno prima di dover decidere cosa fare con me avevo portato Leopold, il mio
amico francese, dal medico personale del Dalai Lama all'Istituto Medico-
Astrologico (sì, questa è la combinazione) di Dharamsa-la, perché gli sentisse i
suoi diciassette polsi e gli prescrivesse delle - pare efficacissime - pillole
nere, tipo cacherelli di pecora, per un'epatite. E poi: sono stato io a dire e a
scrivere che l'uomo occidentale, imboccando l'autostrada della scienza, ha
troppo facilmente dimenticato i sentieri della sua vecchia saggezza e che ora,
conquistando l'Asia col suo modello di modernità, rischia di far scomparire
anche là una grande quantità di conoscenza legata alle tradizioni locali!
Non avevo cambiato idea, ma quando si trattò della mia sopravvivenza non ebbi
un momento di esitazione: dovevo affidarmi a ciò che mi era più familiare, alla
scienza, alla ragione occidentale. Non era solo una questione di tempo, e in
questi casi non se ne ha tanto da sprecare, visto che tutte le cosiddette
medicine alternative agiscono, quando agiscono, a lungo termine. Era che nel
fondo non mi fidavo. E l'aver fiducia nella cura e in chi la somministra è un
fattore importantissimo, direi fondamentale, nel processo di guarigione.
La fortuna nella vita aiuta e io ne ho avuta in generale più della normale
dose. Anche questa volta la fortuna fu dalla mia, o almeno io la sentii così; il
che è in fondo esattamente la stessa cosa. Fra i colleghi giornalisti, vecchi
d'Asia, ce n'era uno, corrispondente del New York Times, due volte premiato col
Pulitzer, a cui ero legato da un'amicizia nata da alcune esperienze comuni:
tutti e due eravamo stati arrestati ed espulsi dalla Cina; tutti e due,
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contro ogni logica di carriera, avevamo scelto, dopo sedi molto più «importanti
», l'India come paese di cui occuparsi. Ora ci legava un'altra coincidenza: un
paio di anni prima l'amico aveva avuto lo stesso tipo di malanno ed era
sopravvissuto. L'andai a trovare a Delhi e gli chiesi consiglio.
Quelli che avevano aggiustato lui, i « fixers » come li chiamava, erano a suo
parere i migliori sul mercato. Gli credetti. Un paio di telefonate, un fax e nel
giro di pochi giorni ero a New York, diciottesimo nella lista di un nuovo
trattamento sperimentale, nella punta probabilmente più avanzata della medicina
moderna occidentale: il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center o meglio l'MSKCC,
come viene suggerito di scrivere sugli assegni, così che sulla presenza in
quella istituzione possa essere mantenuta una certa discrezione anche con la
propria banca.
Dopo l'uscita di Un indovino mi disse,* a chi mi chiedeva che libro volessi
ora scrivere rispondevo che i libri sono come i figli, che bisogna almeno essere
incinta per pensare di farli e che volentieri, se mi capitava l'occasione, dopo
tanti anni in Estremo Oriente mi sarebbe piaciuto fare un gran viaggio di
riscoperta nell'Occidente più estremo: gli Stati Uniti. Con la scusa che ero
andato in America a cercare di «restare incinta», riuscii a farmi dimenticare.
Negli annunci economici del New York Times lessi di un monolocale da
affittare su Central Park, lo andai a vedere e lo presi all'istante. Quei pochi
metri quadrati di moquette grigia, ravvivati immediatamente con un paio di
stoffe indonesiane e un piccolo bronzo cinese di Buddha sul davanzale di una
grande, bassa finestra, divennero per alcuni mesi la mia tana.
A parte Angela e quelli dell'MSKCC, nessuno sapeva dov'ero. Il telefono non
squillava mai, nessuno suonava alla porta; la sola via di comunicazione che
avevo lasciata aperta col mondo era quella della posta elettronica coi suoi
messaggi in bottiglia che approdavano di tanto in tanto sulla spiaggia
cibernetica del mio computer, che poteva essere dovunque. Secondo me questo è
or-
* Sì, uno degli indovini, Rajamanickam di Singapore, mi aveva predetto che
fra i cinquantanove e i sessantadue anni avrei dovuto affrontare una «strettoia»
nella vita e forse anche un'operazione, ma era stato il solo. Gli altri non
avevano visto niente del genere nel mio futuro e tutti mi avevano dato
generalmente per longevo.
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mai il più discreto, il meno invadente, il miglior mezzo di comunicazione se lo
si usa quando si ha davvero qualcosa da dire, se non ci si abbandona al
linguaggio sciatto imposto dalla velocità e se si stampa, per poterlo sempre
rileggere, quel che di buono si riceve.
La situazione era perfetta. Era quella che da tempo sognavo: avevo intere
giornate di libertà, nessun impegno, nessun dovere e l'incredibile agio di
lasciare vagare la mente, senza interruzioni, senza l'idea - un tempo
l'ossessione - che avrei dovuto fare qualcos'altro. Dopo tanto clamore godevo
finalmente di tanto silenzio. Per anni, preso da guerre, rivoluzioni, alluvioni,
terremoti, grandi mutamenti dell'Asia, ero stato un appassionato osservatore di
vite in pericolo, vite distrutte o, più spesso, sprecate: tantissime vite
altrui. Ora osservavo semplicemente quella che più mi riguardava: la mia.
E da osservare ce n'era. Dopo nuovi esami e la solita sequenza di «C'è
un'ombra di cui non siamo sicuri», «Occorre un altro esame», «Torni la prossima
settimana», «Sono spiacente, ma le debbo dare una brutta notizia...», si scopri
che il malanno non era uno solo, ma erano tre, ognuno con le sue
caratteristiche, ognuno sensibile a un diverso tipo di terapia. Così, senza
dubitare un secondo della loro validità, anzi, aggiungendoci ogni volta una mia
psicologica certezza che tutto era giusto e il meglio che potessi tentare, feci
l'esperienza della chemioterapia, della chirurgia e della radioterapia.
Mai, prima di allora, mi ero tanto sentito fatto di materia; mai avevo dovuto
guardare così da vicino il mio corpo e soprattutto imparare a mantenerne il
controllo, a esserne padrone, a non farmi troppo dominare dalle sue richieste, i
suoi dolori, le sue palpitazioni e i suoi urti di vomito.
Mi resi conto di come, fino ad allora, avendo lavorato per un settimanale, il
mio ritmo biologico e i miei stati d'animo erano stati determinati dalle
scadenza - e spesso dall'angoscia - dell'articolo da scrivere: grande gioia il
sabato e la domenica quando poteva cascare il mondo ma il giornale era già fatto
e io non avevo niente da aggiungere; indifferenza il lunedì quando il numero
successivo veniva pianificato; tensione il martedì e il mercoledì quando dovevo
pensare al nuovo argomento e cominciare a prendere degli appunti; digiuno e
concentrazione il giovedì, giorno della consegna; sollievo guardingo il venerdì
in caso di aggiornamenti; per poi ricominciare daccapo, una settimana dopo
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l'altra, dal fronte di una guerra, da una capitale dove era avvenuto un colpo di
stato, in viaggio attraverso un paese di cui dovevo cercare di capire l'anima, o
dietro a una storia di cui dovevo ricostruire il filo. Ora tutti i giorni della
settimana erano uguali, senza alti né bassi: semplicemente, meravigliosamente
piatti. E nessuno voleva niente da me.
Ogni stagione ha i suoi frutti e la mia stagione giornalistica aveva fatto i
suoi. Mi succedeva ormai di ritrovarmi sempre più spesso in situazioni simili a
quelle in cui ero già stato, ad affrontare problemi che già conoscevo. Il peggio
era che scrivevo sentendo l'eco di storie e di parole già scritte vent'anni
prima. E poi: i fatti, dietro ai quali un tempo correvo con la passione di un
segugio, non mi interessavano più allo stesso modo. Col passare degli anni avevo
incominciato a capire che i fatti non sono mai tutta la verità e che al di là
dei fatti c'è ancora qualcosa - come un altro livello di realtà - che sentivo di
non afferrare e che comunque sapevo non interessare il giornalismo, specie per
come viene ormai praticato. Avessi continuato in quel mestiere, al massimo avrei
potuto tentare di essere come ero già stato. Il cancro mi offriva una buona
occasione: quella di non ripetermi.
Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cancro era diventato anche una
sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che
prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli
impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro mi ero conquistato il
diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa.
Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva
stranissimo anche a me, ma ero felice.
« Possibile che bisogna proprio avere il cancro per godere della vita? » mi
scrisse un vecchio amico inglese. Aveva sentito dire del mio essere scomparso e
per e-mail mi aveva chiesto notizie. Gli avevo risposto che quella « notizia »
era un mio scoop e che sì, dal mio punto di vista quello era, se non proprio il
più bello, certo il più coinvolgente periodo della mia esistenza. Viaggiare era
sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un
altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo
carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di
tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.
Tutto quello che succedeva mi toccava direttamente. Gli scrissi che godesse di
non avere il cancro, ma che, se voleva fare un esercizio interessante, immagi-
nasse per un giorno di averlo e riflettesse su come non solo la vita, ma le
persone e le cose che ci stanno attorno improvvisamente appaiono in una luce
diversa. Forse una luce più giusta.
Nella vecchia Cina molti tenevano in casa la loro bara per ricordarsi della
propria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando dovevano prendere
decisioni importanti, come per avere una migliore prospettiva sulla
transitorietà del tutto. Perché non fingere per un attimo di essere ammalati, di
avere i giorni contati - come in verità si hanno comunque - per rendersi conto
di quanto preziosi sono quei giorni?
Gli indiani se lo rammentano con la storia dell'uomo che, rincorso da una
tigre, scivola in un baratro. Cadendo nel vuoto il poveretto riesce ad
aggrapparsi a un arbusto, ma anche quello comincia a cedere. Non ha scampo:
sopra di sé le fauci della tigre, sotto l'abisso. In quel momento però, proprio
lì, a portata di mano, fra i sassi del dirupo, l'uomo vede una bella fragola
rossa e fresca. La coglie e... mai una fragola gli parve così dolce come
quell'ultima.
Se a me toccava la parte di quel poveretto, la fragola di quei giorni, di
quelle settimane e mesi di solitària pace a New York era dolcissima. Ma non per
questo ero rassegnato a precipitare. Anzi: cercavo ogni mezzo per aiutarmi. Ma
come? Potevo io, con la mia mente o con altro, fare qualcosa perché l'arbusto a
cui ero aggrappato resistesse? E se ero stato io, come persona, a portare il mio
corpo in quella scomoda posizione, cosa potevo fare per togliercelo? I medici, a
cui fra un esame e l'altro ponevo queste domande, non avevano risposte. Alcuni
sapevano che sarebbe stato importante cercarle, ma nessuno lo faceva.
Allo stesso modo dei giornalisti, anche i miei medici tenevano conto
esclusivamente dei fatti e non di quell'inafferrabile «altro » che poteva
nascondersi dietro i fatti, così come i cosiddetti « fatti » apparivano loro. Io
ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono
anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie,
di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia
hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o
poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era //
cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza
e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio]
L'approccio scientifico, razionale che avevo scelto faceva sì
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che il mio problema di salute fosse più o meno quello di un'automobile guasta
che, assolutamente indifferente alla prospettiva di essere rottamata o
accomodata, viene affidata a un meccanico, e non il problema di una persona che,
coscientemente, con tutta la sua volontà, intende essere riparata e rimessa in
marcia.
A me come persona, infatti, i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o
nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli
fissavano per sottoporlo ai vari « trattamenti ».
Si sa almeno che cosa fa impazzire una cellula nel corpo? Che cosa porta
quella cellula ad abbandonare la sua funzione vitale per trasformarsi in una
tale minaccia alla vita?
L'andai a chiedere al giovanissimo capo della ricerca del-l'MSKCC di cui
avevo letto che non solo aveva quella risposta, ma era anche sulla soglia di
un'importante scoperta: la chiave del codice che, come un interruttore, fa sì
che una cellula sana diventi malata, e viceversa.
«Siamo sulla buona strada, ma arrivarci è un'operazione più complessa che
mandare un uomo sulla luna », mi disse.
Quel che riuscii a capire era affascinante. Per pura coincidenza quel giovane
si era specializzato proprio nel mio tipo di acciacco, ma più lo ascoltavo più
mi rendevo conto che il suo lavoro di esploratore nel misterioso mondo della
vita lo portava in tutt'altra direzione da me-persona-totale, ma anche
lontanissimo da me-corpo.
Lui, a forza di scavare, a forza di andare di particolare in particolare, dal
piccolo nel sempre più piccolo, era arrivato all'interno di uno dei milioni di
codici contenuti nel DNA di una dei miliardi di cellule del corpo. Ma io,
dov'ero? Avrò pur avuto un ruolo nel far scattare nella maniera sbagliata quel
mio interruttore?
« No. Assolutamente nessun ruolo. Tutto era già contenuto nel suo codice e
presto saremo in grado di riprogrammare quella parte che in lei sgarra », mi
disse.
La conclusione era consolante, anche se me ne andai pensando che lui e i suoi
colleghi si illudevano: una volta arrivati a trovare la chiave di quella porta
si sarebbero accorti che dietro c'era un'altra porta e poi un'altra e un'altra
ancora, ognuna con la sua chiave, perché in fondo quello a cui i miei cari
scienziati stavano cercando di arrivare era la chiave di tutte le chiavi, la
combinazione delle combinazioni: il « codice di Dio ». E come potevano
immaginarsi di scoprire quello?
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